“C’era una volta un prigioniero…No: c’era una volta un bambino… Meglio ancora: c’era una volta una Poesia… Anzi, facciamo così: c’era una volta un bambino che aveva il papà prigioniero. ‘E la Poesia?’ direte voi. ‘Cosa c’entra?’. La Poesia c’entra perché il bambino l’aveva imparata a memoria per recitarla al suo papà la sera di Natale.”.
Comincia così il lungo racconto “La favola di Natale” scritto da Giovannino Guareschi, lo scrittore che diede vita nell’immediato dopoguerra ai personaggi di Don Camillo e Peppone. È la storia del viaggio di Albertino, il figlio di Guareschi, che deve assolutamente compiere un’impresa: far arrivare al suo papà internato in Germania le parole della poesia di Natale che ha imparato per lui.
Il viaggio delle parole è duro, esse vengono affidate all’”uccellino della Poesia”, che cerca di trasportarle sulle sue ali, ma la censura tedesca, parola dopo parola, cancella tutto e il povero uccellino deve tornare indietro. Allora il bambino decide che sarà lui stesso ad andare dal suo papà, in un viaggio fantastico pieno di pericoli e di insegnamenti, oltre che di satira amara, accompagnato dalla nonna che vuole andare a trovare “il suo bambino”, dal fedele cane Flik e da una provvidenziale lucciola per illuminare di speranza il cammino. E così, fra locomotive parlanti, galline padovane residenti all’estero, Signori Gufi e cornacchie col kepì, il gruppetto incontra nel bosco, a metà strada, il papà che è scappato per venire loro incontro in sogno, “perché solo nella santa notte di Natale è concesso ai sogni di incontrarsi”.
La favola venne scritta a pochi giorni dal Natale del 1944 quando lo scrittore era internato nel campo di concentramento tedesco di Sandbostel come IMI (Internato Militare Italiano) e fu un vero e proprio miracolo letterario perché composta in una baracca umida, con gli occhi freddi delle guardie di servizio puntati addosso e senza nemmeno un piccolo pezzetto di carta per poterla trascrivere (solo anni dopo l’autore, per non dimenticarla, la mise in un libro); ma quello che la rende unica è il connubio tra le parole e la musica che venne composta dall’amico e compagno di prigionia Arturo Coppola (musicista pluridiplomato che dopo la guerra si dedicò all’insegnamento, alla composizione e, con una sua band, all’intrattenimento jazz), che, con pochi mezzi, aggiunse magia alla favola (“Questa favola io la scrissi rannicchiato nella cuccetta inferiore di un ‘castello’ biposto, e sopra la mia testa c’era la fabbrica della melodia. Io mandavo su da Coppola versi di canzoni nudi e infreddoliti, e Coppola me li rimandava giù rivestiti di musica soffice e calda come lana d’Angora”).
Coppola concertò le musiche, organizzò un coro e mise incredibilmente insieme un’orchestra composta dai pochi strumenti musicali disponibili: un’ocarina, un oboe, due clarinetti, una fisarmonica e alcuni violini, oltre a un “rumorista” che interpretava con la voce alcuni effetti.
La favola venne poi messa in scena la notte di Natale, alla presenza degli altri internati e delle guardie che, grottescamente, ridevano divertite proprio per quel racconto in cui si parlava di loro e della loro ottusità, seppure con amara ironia.
Quello che lascia stupefatti è la dolcezza che Guareschi usa nella scelta delle parole: apparentemente è scritta per il figlio, ma nel leggerla la sensazione è quella di sentire la voce di chi ha vissuto qualcosa di terribile e che, per sopravvivergli, abbia cercato di opporgli tutta la lucidità e la forza di chi “non muore neanche se l’ammazzano”. Ci arriva quindi una fotografia brillante dei protagonisti, digerita nelle parti scabrose ed elaborata per lasciare l’unico insegnamento possibile: non perdere mai la propria umanità.
Negli anni successivi Guareschi si batté per una ricostruzione dell’Italia che passasse sì dagli antichi valori, ma che tenesse sempre in conto che per un giusto progresso bisogna anche rischiare, investire sui giovani, sulla cultura e, non per ultimo, sul buon senso.
Pubblicò, in versione ridotta col titolo di “Diario clandestino”, i quaderni che aveva tenuto durante una parte della sua prigionia e che leggeva, di baracca in baracca, ai suoi compagni, per far dimenticare un po’ la malinconia e la fame, racconti e aneddoti di vita quotidiana all’interno dei lager, dove c’era sofferenza ma anche tanta dignità, e compose, nell’immediato dopoguerra, ”Italia provvisoria”, che presentava affermando “la trovata vera è quella di documentare la narrazione. Così mi tengo agganciato alla realtà e non falso neanche il futuro. Ho tutti i giornali della repubblica, i libri coi documenti”, in cui lo scrittore mise tutto sé stesso, mescolando il serio e il faceto, il sentimento e la polemica, i racconti e le vignette da lui stesso disegnate, articoli di giornali, fotografie e tanto altro, con l’unico scopo di aprire gli occhi e le coscienze di un popolo che doveva “farsi su le maniche” per ricominciare. Non risparmiò nessuno, nemmeno le alte cariche, e per questo tornò ad essere prigioniero nel carcere San Francesco di Parma, a causa di uno scontro avuto con il presidente De Gasperi che lo fece incarcerare per presunta diffamazione. Non si perse d’animo e rimase fermo nelle sue convinzioni: entrò in carcere con la sua sacca militare da IMI esclamando: “Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione”.
Triste fu, oltre al resto, che mentre Guareschi scontava la sua pena, subì un furto nella sua casa di Milano e, tra le altre cose, gli venne rubata la macchina da scrivere dalla quale era nata la saga di Don Camillo e Peppone.
Per rendere ancora più forti i suoi messaggi, li travestì proprio con i panni di questi due rivali, due facce della stessa medaglia che trovano nell’amicizia il luogo libero del confronto. In loro c’è tutto il Guareschi riflessivo ma agguerrito, ironico ma anche amaro, che dipinge un’Italia rurale dalla quale tutto è ripartito, che portava in sé scampoli di attaccamento al “prima della guerra” e slanci di modernità dettati dalla voglia di un nuovo futuro.
E in quella notte di Natale, dove un bambino e il suo papà si incontrano a metà strada tra il sogno e il desiderio di abbracciarsi, c’è tutto il cuore pulsante di uno scrittore che amava quell’Italia di macerie e ricordi, al chiarore di una lucciola che porta speranza.
Marika Bonazzi